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In Inghilterra, è una regola.

E’ il modo di godere il football che è cambiato.
Per quanto strano possa sembrare, è aumentata la competenza. E la sensibilità, anche.
Per la prima, è stata decisiva la televisione. Checchè se ne dica.
Per la seconda, molto hanno contribuito i Maestri alla Federico Buffa, con la loro capacità letteraria di tracciare confini luminosi anche nello sport, e sulle storie che esso contiene.

PanoCosì non ci si stupisce più di tanto se ieri a Frosinone hanno applaudito la squadra che è retrocessa, anziché prenderla a pomodorate. E lo stesso, vedrete, succederà domenica prossima al Carpi… E’ successo persino a Badesse, ieri: con i tifosi del San Quirico d’Orcia che alla fine hanno tributato un’ovazione alla loro squadra, fresca di eliminazione alla gara di play-off.
In Inghilterra, è una regola.
Ma loro sono Anglosassoni, ed hanno un’altra mentalità: lassù, si applaude molto a prescindere, perché (ingenui o no) muovono sempre dal presupposto che un calciatore è uno sportivo leale, e dà sempre il massimo. E quando perde, è merito degli altri, che sono stati più bravi, o semplicemente più fortunati.
Una cosa che da noi, invece, non si dà affatto per scontata: “siamo qui solo per la maglia”, hanno scritto ieri sugli striscioni i tifosi della Sampdoria, per esempio; e lo stesso quelli del Siena, che milita in Lega-pro.

Conta il risultato, insomma. E conterà sempre (almeno da noi, dove si scrive anche sulle magliette). Ma, faticosamente, si sta facendo strada anche un altro, più raffinato concetto: cioè, che il risultato va poi esibito (per strada, in ufficio, al bar) con fierezza ed orgoglio: e questa fierezza passa sempre attraverso il come lo si è ottenuto. Le emozioni che ti ha procurato, le imprese e le prodezze che lo hanno consentito.
Il titolo del Leicester, tanto per dire, conta uno. Né più, né meno dei tantissimi che hanno vinto, nella loro storia, il Liverpool, o il Manchester United. Ma converrete che tra quelli, e l’impresa appena compiuta da Ranieri, Vardy e Mahrez, passa tutta la differenza di questo mondo.
E quella differenza, il pubblico si dimostra sempre più maturo nel saperla cogliere: come hanno dimostrato i migliaia di Italiani che si sono riversati lassù per festeggiare.

Conta anche il “come” si vince, dunque. E, conseguentemente, anche il “come” si perde.
Abbiamo più strumenti a disposizione per giudicare, rispetto ai nostri papà (o nonni), che non andavano mai allo stadio, e non vedevano Fox Sport.
Altro mondo: loro osservavano ammirati una plastica rovesciata di Carlo Parola alla Settimana Incom, e se ne uscivano dal cinematografo convinti che non esistesse al mondo un campione più incommensurabile di quello.
Così, quando quel campione perdeva non c’era da star lì a discutere troppo: colpa della slealtà degli avversari o, peggio, dell’’arbitro. Cornuto a prescindere.

Non è più così.
I dogmi stanno siogliendosi: almeno nello sport; dove (ricordiamocelo) si vive di emozioni a gratis, e nessuno ci guadagna niente, esclusi i diretti interessati. E dove, enucleata da quel po’ di necessario sentimento, qualsiasi impresa diventa fredda. E inservibile.

Perché “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” , può andar bene.
Ma con juicio.

RL

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